Mi dimenticherò di te tutti i giorni
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Sostare nel campiello molto presto al mattino e ad ogni tramonto, nella luce veneziana che sta per cambiare, ogni giorno per un mese. Con una veste bianca, scalza, Chiara Mu attende quieta i passanti. Si avvicina con cortesia e chiede se può prendere per mano la persona ed accompagnarla da una parte all’altra del campo. Non attraversa mai il campo da sola e rimane nella striscia bianca tracciata dalla decorazione pavimentale, in attesa.
L’artista cerca di interagire con i passanti in modo intimo e personale, una inusuale ma semplice richiesta che vuole significare stabilire una relazione di scambio in uno spazio quotidiano condiviso, seppur di passaggio, una reazione alla percepita freddezza ed al distacco che l’artista stessa (di origini veneziane) considera propri della città.
Questo intervento poetico specifico verrà ripreso dal fotografo e video-maker Dariusz Dziala, che collaborerà con Chiara Mu alla realizzazione, in un secondo momento, di una mostra a coronamento del lavoro.
Tutto il progetto fa’ ampio riferiemento agli scritti di Alberto Toso Fei relativi all’immaginario popolare fantasmatico veneziano, con specifico riferimento ai: “Misteri della laguna e racconti di streghe”, “Leggende veneziane e storie di fantasmi”, “Veneziaenigma”. Venezia rappresenta infatti anche il fascino emanato dalle leggende che riportano di figure femminili, riferite come “visioni”, apparizioni in luoghi specifici che caratterizzano così lo spazio e il vissuto quotidiano ad esso legato.
L’intervento inoltre mira a rovesciare la dinamica per cui la presunta apparizione dell’intangibile diventa l’elemento che definisce l’identità del luogo, si tratta qui di incarnare la visione, renderla ossessivamente presente e frontale per poi sottrarla, la sparizione ha il fine di imprimerne la memoria nei passanti e nella pietra.
La presenza di Chiara Mu, ripetuta per un mese allo stesso orario nello stesso luogo, finisce col lavorare su molti livelli concettuali, ma su almeno due livelli spazio-temporali ben precisi. Il primo è l’accadimento, il presente, il secondo è la reiterazione, la dilatazione del tempo, e quindi la stabilizzazione degli eventi e la loro trasformazione se non in normalità, almeno in consuetudine.
E dall’universale al particolare: l’attraversamento di Chiara lavora su Venezia, sulle sue abitudini, sul suo scenario, sulle luci del mattino e della sera e sulla gente che si reca nei luoghi di Venezia. Il secondo livello è infatti l’abitudine; l’abito con cui si veste il concetto stesso.
La consuetudine è la forza dell’instaurarsi nella struttura fisica e mentale dei gesti ordinari, come un abito da vestire, come qualcosa da sapere di quell’orario crepuscolare, di quell’atmosfera e di quel luogo, qualcosa da dirsi e di cui la cui retina sentirà la mancanza non appena avrà terminato il suo decorso di apparizione.
Finchè infatti non si compirà il suo destino di apparenza al termine, sparire nel tempo, innestandosi quotidianamente sempre più flebile come assenza… come dimenticanza.