QUI arte contemporanea, quarant’anni
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“La Galleria Edieuropa festeggia i suoi quarant’anni. Lo fa ricordando Lidio Bozzini, fondatore e animatore dell’attività artistica della galleria,.
La Galleria Edieuropa festeggia i suoi quarant’anni. Lo fa ricordando Lidio Bozzini, fondatore e animatore dell’attività artistica della galleria, e promotore di quasi mezzo secolo di arte contemporanea, attraverso le sue parole raccolte da Lea Mattarella in un’intervista o, meglio in una conversazione. Racconta Lea Mattarella:” Bozzini amava sottolineare come tutto fosse nato un po’ per caso, proprio come capita nelle grandi storie d’amore. Io facevo l’editore, racconta Lidio Bozzini e conoscevo un gruppo di artisti perché avevo pubblicato i loro libri.
Un giorno arrivano da me e mi dicono che vogliono fare una rivista d’arte contemporanea. C’erano Capogrossi, Colla, Leoncillo, Fontana, Pasmore e, soprattutto, Sadun, che veniva come me da Siena …trovammo la sede in via del Corso…e così cominciò la rivista. Però il posto andava arredato e gli artisti portavano le loro opere per renderlo più bello. E la gente voleva comprarle. E così è nata la galleria”.Era il luglio del 1966 quando uscì il primo numero della rivista QUI Arte Contemporanea e nello stesso anno con la collaborazione dei critici, Marisa Volpi, Lorenza Trucchi, Gianni Carandente, Alberto Boatto, che ebbero un ruolo fondamentale durante tutto il percorso della galleria, iniziò l’attività espositiva nella sede “storica” di via del Corso, dove rimase fino al 1998, per poi trasferirsi nel Palazzo del “Girasole” di Moretti, in viale Bruno Buozzi.
I quarant’anni della galleria
“QUI arte contemporanea”
Sembra ieri per molti di noi, eppure sono passati quarant’anni dalla prima mostra. Era quella di Carla Accardi, Marcia Hafif e Giulio Turcato: artisti con i quali abbiamo continuato a lavorare nel corso del tempo perché a Lidio Bozzini piaceva che le scelte della galleria avessero una continuità, fossero coerenti.
Per questa ragione il nostro compleanno abbiamo deciso di festeggiarlo con gli artisti di sempre, con gli amici di sempre. Tutti insieme per ricordare Lidio, ma anche per lavorare come faceva lui, con lo stesso entusiasmo e la medesima passione.
Tutto cominciò nel 1966, con la rivista Qui Arte Contemporanea, la quale si proponeva”…nei limiti delle sue possibilità, di aprire una zona per così dire ossigenata, ai fatti salienti nuovi o non sufficientemente conosciuti dell’arte di oggi.”
Nel 1976, quando l’Editalia celebrava i suoi dieci anni era stato Giovanni Carandente a ricordare come “Avvalendosi del sostegno editoriale, la galleria ha svolto un’azione in profondità nel tessuto artistico contemporaneo, riuscendo a coinvolgere assai più l’assetto culturale delle situazioni che non il loro andamento meramente mercantile.‘’
Dieci anni dopo Lorenza Trucchi scriveva: “Mi pare che la galleria abbia confermato un più precipuo interesse per l’arte astratta. Lo ha fatto persino oltre le sue iniziali premesse, con lodevole coerenza e non badando al volgere delle mode… Troviamo quindi una periodica, insistita rotazione di nomi di prestigio nell’ambito di una sicura ‘linea italiana’ del linguaggio non figurativo, iniziata con Balla, Severini, Magnelli”. E a proposito della rivista, nella sua presentazione si legge: ” Mi accade talvolta di dover sfogliare la collezione e sempre constato, non senza compiacimento, che fu una rivista seria, tempestiva, del tutto immune da compromissioni mercantili e di questo va reso grande merito all’Editore. Le sedute redazionali erano molto vive, dialettiche. Marisa Volpi era allora intransigente su una linea di cosiddetta avanguardia, io optavo per un’apertura maggiore che investisse temi che mi parevano di pregnante attualità, quali la fotografia e il ritorno all’iconismo. Tra i numeri che mi impegnarono in maniera più diretta quello dedicato a “Arte e regressione”, al quale collaborarono firme di prestigio internazionale come Abraham Moles, Jean Starobinski, Aleksa Celebonovic.“
Daniela Fonti, chiamata a una ricognizione sui 25 anni osservava invece come “ quel che caratterizzò in modo assolutamente particolare la galleria fu la costante attenzione prestata alla scultura, un’attenzione che non è mai venuta meno fino ad oggi”.
Quando raggiungemmo il traguardo dei trent’anni fu Vito Apuleo a raccontarci. “ Lo fece riconoscendo all’Editalia il ruolo di “un porto gioioso, un luogo dove chiarire – o almeno tentare di farlo- le ragioni della ricerca e quel disagio di chiamarsi arte che sembrava voler travolgere tutto e tutti”.
Per i nostri quarant’anni abbiamo scelto di far parlare direttamente la galleria, ovvero di affidare il compito di fare un bilancio direttamente a Lidio, pubblicando un’intervista raccolta, qualche tempo fa, da Lea Mattarella e da Raffaella Bozzini. Ci piace che sia, ancora una volta, la sua voce a fare a tutti noi gli auguri. Per continuare, per andare avanti ancora.
Conversando con Lidio Bozzini
A Lidio Bozzini non piaceva essere definito gallerista. Amava sottolineare come tutto fosse nato un po’ per caso, proprio come capita nelle grandi storie d’amore. Tu sei lì, vai per la tua strada e all’improvviso ecco il colpo di fulmine che ti fa girare prima la testa e poi l’angolo. Insegui la tua passione e la tua vita cambia.
È successo un po’ così anche per la sua scommessa: quella della galleria, della rivista, degli artisti.
Com’è nato questo sogno, questa avventura che lo ha divertito e lo ha appassionato fino all’ultimo, Bozzini un giorno ha deciso di raccontarcelo. Una mattinata d’inverno nella nuova sede della galleria (che dal 1992 si chiama Edieuropa) invasa dal sole e circondata dai quadri di coloro che aveva amato da sempre: Carla Accardi, Giulio Turcato, Achille Perilli, Antonio Sanfilippo, Piero Sadun.
Qui, in Viale Bruno Buozzi, Bozzini aveva trasferito la sua attività nel 1998. E in quella occasione c’ eravamo io e Raffaella, la figlia che ha deciso di seguire le sue orme nel campo dell’arte (all’altra, a Michela, Bozzini ha contagiato la passione per il cinema).
Mentre parlava era evidente che stava raccontando una bella storia, una di quelle con il lieto fine. “Io facevo l’editore – ricordava – e conoscevo un gruppo di artisti perché avevo pubblicato i loro libri. Un giorno arrivano da me e mi dicono che vogliono fare una rivista d’arte contemporanea. C’erano Capogrossi, Colla, Leoncillo, Fontana, Pasmore e, soprattutto, Sadun, che veniva come me da Siena ed era il promotore più convinto di questa faccenda. Io dico: Bene, sarà interessante, farò certamente l’abbonamento. E loro: Ma quale abbonamento? La devi fare tu la rivista insieme a noi. Rigorosamente senza critici”.
E invece i critici ci furono eccome. Ed ebbero un ruolo fondamentale. Bozzini ci teneva a sottolineare come questa avventura fosse stata collettiva. I nomi di Marisa Volpi, Lorenza Trucchi, Giovanni Carandente, Cesare Brandi, Alberto Boatto ritornano continuamente durante tutto il nostro incontro. “Certo! Erano loro che venivano da me e mi facevano delle proposte. Marisa arrivava e mi diceva: ci sarebbe Carla Accardi o Paolini, Kounellis, Pascali ecc. Io mi fidavo ciecamente e ho fatto bene perché non sbagliavano un colpo. Abbiamo esposto Il giovane che guarda Lorenzo Lotto di Paolini e i materiali di Kounellis nella stessa esposizione, e poi la Triplice tenda di Accardi, le sculture di Consagra. Quello che mi ricordo è la grande libertà con cui si lavorava”.
Altri due compagni di viaggio sono Mario Giudotti, il direttore, all’epoca l’unico giornalista del gruppo e Mario Verdone che adorava il Futurismo e collezionava anche le opere di Sadun. Questo succedeva esattamente quarant’anni fa, nel 1966. “Ma l’idea era almeno di un anno precedente – prosegue – solo che gli artisti erano litigiosissimi. Per ogni cosa si discuteva per giornate intere. Venivano da me e baccagliavano su tutto. Un bel giorno finalmente trovammo la sede in via del Corso. Se ne occupò Sadun che era la mente più pratica del gruppo. E così cominciò la rivista. Però il posto andava arredato e gli artisti portavano le loro opere per renderlo più bello. E la gente voleva comprarle. E così è nata la galleria”.
Il primo numero di QUI Arte Contemporanea è del luglio ’66. Ci sono già i due filoni che la galleria perseguirà nel corso del tempo: il Futurismo e l’arte astratta contemporanea. La copertina, dalle lettere scolpite, l’aveva pensata Ettore Colla. L’ultimo numero della rivista è datato al giugno 1977. Ma ogni tanto Bozzini, nel corso degli anni, sognava di rimetterla in cantiere.
Gli intenti dell’iniziativa sono nell’editoriale: “Questa rivista nasce dalla necessità di disporre di uno strumento capace di portare un persuasivo chiarimento della situazione venuta a determinarsi in questi ultimi anni nel mondo dell’arte contemporanea”. In effetti, ci riuscirà. Anche perché quelli erano tempi beati in cui la critica d’arte possedeva un linguaggio alla portata di tutti. Se si leggono gli articoli pubblicati, ma anche le presentazioni delle mostre che si susseguirono nella sede della rivista, poi diventata Galleria Editalia QUI arte contemporanea, si rimane impressionati dalla chiarezza, dal desiderio di spiegare, di farsi capire. Tutte cose che oggi sembrano essere scomparse in un mondo sempre più chiuso e referenziale, in cui i critici scrivono per essere compresi da un gruppetto di persone che sa già in anticipo cosa vogliono dire.
Sfogliando le brochure pubblicate in occasione delle esposizioni, il cui formato è rimasto pressoché identico nel corso degli anni (oggi si è voluto riproporlo, per continuità, ma anche per ricordare Lidio in un modo che gli sarebbe piaciuto), si nota un’altra singolarità. Per tutto il primo periodo non vi è mai indicata una data, o meglio manca l’anno di riferimento. Inaugurazione il 19 aprile, il 10 maggio, il 21 giugno ecc. “Noi avevamo la sensazione di fare tutto per il giorno, non per la storia e quindi non si metteva nemmeno la data…”.
E invece un pezzo di storia dell’arte tra le pareti dell’Editalia si è fatta davvero. Sfoglio a caso i cataloghi che Bozzini raccoglieva insieme ogni dieci, o cinque anni chiamando i suoi amici critici a fare una specie di punto della situazione (il primo è Carandente, la seconda Lorenza Trucchi, poi Daniela Fonti e infine Vito Apuleo): oltre ai già citati, ecco Bice Lazzari, Antonio Scordia, Toti Scialoja, Agostino Bonalumi, Luciano Fabro, Afro, Umberto Mastroianni, Carlo Lorenzetti, Piero Dorazio, Santomaso, Fausto Melotti, Maurizio Mochetti, Antonio Trotta, Giuseppe Uncini, Giò Pomodoro, Eliseo Mattiaci, Sergio Lombardo, Mario Merz, Claudio Cintoli… e potrei continuare. Poi ci sono gli stranieri: Marcia Hafif, Nagasawa, Cy Twombly, Poliakoff, Manessier e molti altri. È impossibile citarli tutti.
E se si rivolgeva al passato, la galleria Editalia cercava le fonti di quella pittura non figurativa, di quelle indagini sui materiali che andava proponendo per l’oggi, tra le ricerche futuriste. C’è anche, ed è singolare, una mostra di maestri surrealisti, ma è una parentesi. Troppa narrazione, troppe figure tra i seguaci di Breton. A lui piaceva un’arte che parlasse un linguaggio più sofisticato, non che avesse una teoria ma un gusto ben preciso sì: amava soprattutto i maestri (che allora ancora non erano tali, spesso erano agli esordi) dell’astrazione. E lo affascinava la sperimentazione sulla materia.
Naturalmente Alberto Burri aveva un posto privilegiato nella sua costellazione di artisti. Gli piaceva raccontare l’esposizione che aveva organizzato nel 1973. “Burri abitava in un posto impervio, non era agevole arrivare da lui, non c’era neanche la strada asfaltata. E poi era un tipo chiuso, difficile. Con Cesare Brandi volevamo fare una sua grande mostra ad Assisi. Ci sembrava un’idea bellissima e gliela andammo a proporre”. E lui come la prese? “All’inizio oppose una forte resistenza, ci guardava sospettoso, cambiava discorso. Poi a un certo punto disse soltanto: ora si va a mangiare dalla Carabiniera. E io e Brandi ci lanciammo uno sguardo d’intesa che significava più o meno: è fatta!” Era fatta per davvero? “Sì, in effetti fu così. Se Burri si sedeva a tavola con te significava che avevi vinto la sua diffidenza, che lo avevi portato dalla tua parte. Che poi in questo caso era la sua di parte, perché il convento di San Francesco d’Assisi era il posto ideale per la sua opera. C’era questo rimando poetico al saio del santo che potevano evocare i suoi sacchi. E poi era la sua terra. Mi ricordo che gli dissi che questa mostra doveva farla per la sua regione, che il suo amore per quei luoghi non si poteva limitare al tifo per il Perugia!”.
L’antologica di Alberto Burri si inaugurò il 3 maggio 1975 e restò aperta per un mese. Organizzata dall’Editalia, era accompagnata da un piccolo, elegante catalogo presentato in tre lingue da Cesare Brandi. Bozzini si divertiva ricordando la fatica di quell’impresa: “Burri era molto preciso, molto pignolo e voleva decidere tutto lui. Era un artista che lavorava con lo spazio e nello spazio, per lui era fondamentale il luogo che avrebbe accolto le sue opere. Passammo l’esame del convento, ma il pittore volle che tutto fosse dipinto di bianco. Aveva ragione perché poi la mostra aveva un allestimento molto efficace. Però ci costò un grande sforzo e facemmo tutto da soli. Una volta mentre caricavamo e scaricavamo cose lasciai per un momento la macchina davanti alla basilica e presi una bella multa. Allora la misi in una cornice e la mostravo a tutti. Perché era l’unico contributo pubblico alla mostra di Burri!”.
Tornando all’attività dell’Editalia, Bozzini sorrideva ricordando come nei primi inviti non comparisse mai la parola galleria, ma si indicava semplicemente che l’esposizione si sarebbe tenuta nella sede della rivista. “Si era poco mercanti allora. Si voleva semplicemente diffondere un’arte che credevamo valida, che ci piaceva. Tutto nasceva dalla voglia di incontrarsi, di confrontarsi, di dibattere, se vuoi anche di litigare per le proprie convinzioni estetiche”. Lorenza Trucchi, festeggiando i vent’anni della galleria sottolineava: “Una delle novità maggiori consisteva nel dibattito: gli artisti espositori venivano intervistati da critici e pubblico”. In effetti era questo che a Bozzini piaceva che venisse riconosciuto all’Editalia: mettere insieme le persone perché tra loro ci fosse uno scambio. Ed è con una certa fierezza che diceva “Rosenberg veniva qui e parlava con tutti”. D’altra parte l’idea di quello che potremmo definire un dialogo tra le parti era già nel primo numero della rivista, in quella tavola rotonda che si prefiggeva di rispondere alle domande dei lettori.
Sono passati quarant’anni e Lidio Bozzini non è qui con noi a festeggiare il compleanno della galleria. Ma questo anniversario, questo traguardo è dedicato a lui. E a me piace ricordarlo con il racconto di quella giornata assolata, mentre guarda con diffidenza il registratore e si alza dalla sua scrivania per sedersi sul divano accanto a me. Un po’ perché in lui c’era ancora un’antica cavalleria e un po’ per il suo desiderio di togliere solennità al nostro incontro. “Noi non stiamo facendo un’intervista, ma una chiacchierata. E’ chiaro?”.Lea Mattarella